Titolo originale: The Hateful Eight
Paese: USA
Anno:
2015
Regia: Quentin Tarantino
Cast: Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins,
Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern, Channing Tatum
Genere:
western,
thriller, giallo
E rieccomi qua,
cari navigatori dell’Internet, a presentarvi, per la nuova rubrica “Film da oscar” (appena inventata cinque
minuti fa) la tanto attesa e agognata recensione dell’ultima pellicola
tarantiniana: “The Hateful Eight”!
Premetto
dicendo che fin da subito mi sono trovato un po’ in difficoltà nel dover
recensire un film di quel funambolo della cinepresa che prende il nome di
Quentin Jerome Tarantino e ancor di più a dover recensire proprio quest’ultima
pellicola che, rispetto molti suoi film precedenti, ha spaccato in due critica
e pubblico ed è stato amato, odiato, spernacchiato o idolatrato come assoluto
capolavoro ancor prima che uscisse nelle sale. Ora, a mente un po’ più fredda e
dopo una seconda visione a distanza di mesi della suddetta pellicola, penso di
poterla analizzare con maggiore precisione e compiutezza. Si comincia!
The Hateful
Eight rappresenta l’ottava (e qui il titolo ce lo vuole caldamente ricordare)
opera cinematografica di Tarantino e il suo secondo western, a tre anni di distanza
da quel “Django Unchained” (che considero una sorta di “antipasto” a questo
film) che aveva fatto tanto parlare di sé e aveva fatto riscoprire ad una buona
fetta di spettatori l’amore per uno dei generi che più ha caratterizzato la
Hollywood della golden age, ossia il western classico, quello della Monument
Valley e di John Ford, Howard Hawks e Fred Zinneman per intenderci (correte a
recuperare giusto questi tre immarcescibili capolavori: “Sentieri selvaggi”, “Undollaro d’onore”, “Mezzogiorno di fuoco”), e verso la sua successiva
reinterpretazione tramite lo spaghetti western (e altri classici che non fanno
di certo male ve li butto lì: “Django”, “Il buono, il brutto, il cattivo”, “C’era una volta il West”). Il western/exploitation di Tarantino questa volta, va
precisato, rivolge lo sguardo più al primo e più classico genere di western
rispetto, ad esempio, a Django che saccheggiava a piene mani dallo “spaghetti”.
Ma quel è la
trama di questo “The Hateful Eight”? La trama è semplicissima (come accade di
solito nei film migliori): due cacciatori di taglie si ritrovano insieme, per
puro caso, durante una tormenta; devono raggiungere entrambi la città di Red
Rock, uno (John Ruth “il Boia”) per portare la ricercata Daisy Domergue
all’impiccagione e riscuotere la sua cospicua taglia e l’altro (il Magg.
Marquis Warren) per riscuotere anch’egli le taglie dei cadaveri di tre
criminali. I due cacciatori di taglie si conoscono di fama e decidono di
condividere il viaggio sulla diligenza del primo, finchè non incontrano un
rinnegato del sud (Chris Mannix) che sostiene di esser stato nominato nuovo
sceriffo di Red Rock e sta dirigendosi proprio lì per ottenere il titolo. La
tormenta, però, costringerà questo mal assortito gruppo a fermarsi in una
locanda nel bel mezzo del nulla dove incontreranno altri pittoreschi
personaggi. L’azione si svolgerà poi per il 90% della durata del film nella
locanda dove i nostri avventori si scruteranno, impareranno a conoscersi e a
diffidare l’uno dell’altro, in un crescendo di odio e sospetto sino al momento
in cui uno di loro verrà avvelenato ed inizierà il countdown e la conseguente resa
finale.
Il film, come
da manuale per Tarantino e come ormai sapranno tutti i suoi fan, è suddiviso
in più atti, precisamente sei e, già il primo atto, per il sottoscritto, è
stato a dir poco fantastico, pieno di rimandi al cinema di Leone, Kurosawa e
Carpenter a livello di scelte di stilistiche e di inquadrature (e come non
citare il bellissimo movimento di camera iniziale dalla croce del Cristo
innevata allargandosi fino ad avere una visione panoramica delle foreste e
delle montagne innevate), contrapponendo continuamente spazi ampi (gli esterni
nevosi) a spazi ristretti (il micromondo all’ interno della carovana) e
cercando volutamente una scelta estetica, per così dire, posata. Fin da subito
la presentazione dei personaggi è spiazzante ed intrigante, il rapporto tra il
carnefice e la futura impiccata è
incredibile, i personaggi passano continuamente dall’esser divertenti e
divertiti a rapide ed imprevedibili esplosioni di violenza, per poi ritornare
nuovamente tranquilli, ironici e sornioni.
I personaggi sono proprio, a mio parere, uno dei punti forti del film: sono quasi tutti stilizzati proprio per instillare il dubbio nello spettatore che qualcosa non è come appare e le interpretazioni sono tutte magistrali: si va dai sempre ottimi Samuel L. Jackson (Magg. Marquis Warren) e Kurt Russel (John Ruth “il Boia”), il primo dei due è forse il personaggio più carismatico dell’intero film, per poi passare all’enigmatico cowboy dalle poche parole interpretato da Michael Madsen (Joe Gage), il quale millanta di dover andare a trovare la povera madre, al presunto sceriffo interpretato da Walton Goggins (Chris Mannix), il quale si rivelerà avere un carattere che cresce e muta con l’evolversi della trama, al boia Oswaldo Mobray di Tim Roth che fa un’interpretazione a là Cristoph Waltz (forse l’unico personaggio leggermente sottotono) fino alla dea intorno alla quale ruota tutta la vicenda, la Daisy interpretata da una straordinaria Jennifer Jason Leigh, scaltra e luciferina, un personaggio davvero bizzarro che sta andando alla morte non preoccupandosene ma, anzi, apparendo particolarmente divertita (e il capitolo “Il segreto di Daisy” in cui lei noterà qualcosa che nessun altro degli avventori ha notato sarà uno dei più belli di tutto il film).
Tutti questi personaggi e altri ancora secondari ma, mai come in questo film, tutti determinanti ai fini della trama e, per lo più, interessanti vengono accompagnati nelle loro azioni e nella presentazioni degli atti da una voce narrante (scelta insolita per il regista del Tennessee e voce proprio di Tarantino nella versione originale del film), un narratore esterno di cui non scopriremo mai l’identità.
I due cacciatori di taglie a confronto! |
I personaggi sono proprio, a mio parere, uno dei punti forti del film: sono quasi tutti stilizzati proprio per instillare il dubbio nello spettatore che qualcosa non è come appare e le interpretazioni sono tutte magistrali: si va dai sempre ottimi Samuel L. Jackson (Magg. Marquis Warren) e Kurt Russel (John Ruth “il Boia”), il primo dei due è forse il personaggio più carismatico dell’intero film, per poi passare all’enigmatico cowboy dalle poche parole interpretato da Michael Madsen (Joe Gage), il quale millanta di dover andare a trovare la povera madre, al presunto sceriffo interpretato da Walton Goggins (Chris Mannix), il quale si rivelerà avere un carattere che cresce e muta con l’evolversi della trama, al boia Oswaldo Mobray di Tim Roth che fa un’interpretazione a là Cristoph Waltz (forse l’unico personaggio leggermente sottotono) fino alla dea intorno alla quale ruota tutta la vicenda, la Daisy interpretata da una straordinaria Jennifer Jason Leigh, scaltra e luciferina, un personaggio davvero bizzarro che sta andando alla morte non preoccupandosene ma, anzi, apparendo particolarmente divertita (e il capitolo “Il segreto di Daisy” in cui lei noterà qualcosa che nessun altro degli avventori ha notato sarà uno dei più belli di tutto il film).
Tutti questi personaggi e altri ancora secondari ma, mai come in questo film, tutti determinanti ai fini della trama e, per lo più, interessanti vengono accompagnati nelle loro azioni e nella presentazioni degli atti da una voce narrante (scelta insolita per il regista del Tennessee e voce proprio di Tarantino nella versione originale del film), un narratore esterno di cui non scopriremo mai l’identità.
Il micromondo della carovana |
Vorrei ora spender
un paio di parole per quanto riguarda le critiche che ho sentito o ho letto
venir mosse a questo film. Chi ha stroncato o valutato negativamente l’ultima
fatica di Tarantino lo tacciava di eccessiva verbosità, lentezza, misoginia e
di interpretazioni non all’altezza. Premettendo che l’ultima affermazione mi
lascia basito e spero non sia frutto di fumi o sostanza stupefacenti, per
quanto riguarda l’eccessiva verbosità vorrei ricordare che nei film di
Tarantino si parla sempre, dalla prima all’ultima inquadratura e questa è la
sua cifra stilistica mentre per quanto riguarda la generale lentezza (“lento
come la melassa” sarà una frase che ritornerà più volte nel film) controbatto
puntualizzando che il film ha un ritmo più che lento, direi sinuoso, il quale
da allo spettatore la possibilità di adattarsi e prepararsi per ciò che
succederà. Infine le accuse più ridicole per me sono quelle legate ad una
presunta misoginia: in un film in cui i personaggi maschili risultano tutti
stupidi e violenti mentre il componente più sagace, furbo e manipolatore è
rappresentato dall’unica donna, mi sembra proprio fuori luogo!
Lo sguardo mefistofelico di Jennifer Jason Leigh |
A livello
tematico, le questioni toccate da Tarantino sono molteplici: la più rilevante e
cartina di tornasole dell’intera vicenda è la Storia (con la s maiuscola)
dell’America e le sue contraddizioni, la Storia della violenza (sterminio di
interi popoli ed etnie), del sangue (“giustizia di frontiera”) e del furto
(terre, uomini e bestiame) su cui sono nati gli Stati Uniti e che ritroviamo
evidenziata all’interno dei lunghi e straripanti dialoghi, un America costruita
sulla pena di morte e su personaggi che avrebbero dovuto far rispettare la
legge e che, molto spesso, si dimostravano peggio dei criminali che
inseguivano; inoltre l’impossibilità di avere eroi o comunque la futilità e
l’infantilità di un certo ideale eroico che la “fabbrica dei sogni” ci propina
ormai da generazioni o l’impossibilità per l’essere umano di avere coscienza e
pietà in situazioni che lo richiederebbero sono altri due aspetti che
presentano i cinici avventori della locanda e due altrettanto validi argomenti.
La preparazione per la resa dei conti! |
In definitiva,
per chi scrive, questo “The Hateful Eight” è di sicuro un ottimo film: chi si
aspetta un Tarantino ipercinetico, costantemente sopra le righe, con sangue ed
esplosioni grandguignolesche una scena sì e una no, allora rimarrà deluso ma
chi è alla ricerca di un ”vero” western, confezionato a regola d’arte ed
interpretato egregiamente da uno dei migliori cast attualmente in circolazione,
per di più con uno dei finali più tragici e forti visti recentemente su grande
schermo, un film che vive di silenzi e attese cercando di colpire al cervello e
non alla pancia dello spettatore, avrà di che gioire e godere!
Maaa... questo film è un capolavoro? Per ora no, sarà il tempo a dircelo, sicuramente per me è uno dei migliori film del 2016 e uno tra i miei preferiti di Tarantino (in compagnia dell’inossidabile Pulp Fiction e di JackieBrown) e si porta a casa un eccellente
Voto: 9,5
CURIOSITÀ:
·
Il
film è stato presentato anche in una versione in pellicola 70mm, contenente un
ouverture e un intervallo ed alcuni dialoghi e scene più lunghe;
·
La
pellicola ha molti punti in comune con “La cosa”, magistrale film horror di
John Carpenter come l’ambiente freddo e ostile, i personaggi rinchiusi in uno
spazio stretto e confinato in cui molti non sono ciò che appaiono e ognuno
diffida dell’altro, l’attore Kurt Russel protagonista di entrambe le pellicole
ed, infine, le musiche di Morricone era state precedentemente pensate proprio
per il capolavoro horror di Carpenter.
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